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Articoli Recenti, Confini Reali, Frontiere e confini

La Selva Nera

Mentre Daniele tirava fuori gli oggetti dalla sua “scatola geografica” e ci parlava della Germania, durante l’ora di geografia, mi ha incuriosito particolarmente il nome di un luogo: Selva Nera. Mi sono chiesto da dove venisse e ho deciso di approfondirlo.

Ecco il mio lavoro, cliccate sul file e buona lettura.

Articolo di Davide Di Loreto, classe 2A.

Articoli Lo Specchio, Articoli Recenti, Geoletteratura, La geografia nei passi letterari

Può esistere un autore preferito?

Ce lo siamo chiesti in 3C, visto che abbiamo quasi terminato il programma di letteratura, e… non sappiamo dare una risposta.
Probabilmente no, perché ogni autore o autrice ha qualcosa di interessante da dire, da condividere, un messaggio a cui tiene da lasciare ai suoi lettori. Però sicuramente qualcosa ci colpisce più di altro e lo abbiamo messo per iscritto.

Abbiamo riflettuto su quanto gli autori siano specchio della loro epoca, perché scrivono giustamente quel che sentono vicino al loro animo, eppure riescono a parlarci dopo anni, secoli, millenni. Dante per esempio, che era sicuramente un uomo del suo tempo, nella sua Commedia che Boccaccio definisce Divina, tratta appunto argomenti divini, legati alla religione, al Medioevo, che nessun autore contemporaneo tratterebbe, ma che ancora oggi ci appassiona ed è amatissimo, perché il suo è un linguaggio universale.

Abbiamo riflettuto su quanto la letteratura si cibi di storia e geografia e di quanto sia interconnessa con le altre discipline: Manzoni, ad esempio, sa indagare e raccontare benissimo la Storia, quella la S maiuscola, scrivendo uno dei romanzi storici più famosi della letteratura italiana, ma non ci dimentichiamo della geografia. “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” è l’incipit de I Promessi Sposi. Lago, alberi, punti cardinali. Tutte elementi scientifico-geografici.

Abbiamo riflettuto su quanto la letteratura sia stimolo a comprendere il mondo e noi stessi, ma anche di fosse importante per gli autori e le autrici, del passato e del presente, regalarci la percezione che “una vita non basta”, come dice Pessoa, che scriveva: “la letteratura, come tutta l’arte, è la percezione che la vita non basta”.

Qui di seguito alcune delle nostre riflessioni e preferenze.

“Devo dire che scegliere un solo autore che ho preferito durante questo anno scolastico è difficile. Proprio per questo cito più autori: Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Primo Levi.
Di tutti questi quattro autori ho amato veramente molto la loro poetica, i loro pensieri, insomma le tematiche a cui hanno scelto di dedicare le loro opere. In Pirandello ho amato la questione delle maschere, che accompagna da sempre l’uomo durante il lungo percorso della vita, che ci piaccia o no; in Leopardi ho amato la sua lunga riflessione sulla condizione dell’uomo e una delle sue bellissime liriche, ovvero L’Infinito; in D’Annunzio invece ho amato il fatto che del bello fa la sua ragione di vita, anche se a volte esagera un po’, e soprattutto La pioggia nel pineto, che quasi ti fa sentire la pioggia che cade. Infine in Levi ho amato il suo rapporto con la chimica e la scienza intrecciato con la letteratura e di come il suo lavoro da chimico – e quindi la sua passione – lo abbia salvato dal campo di stermino ad Auschwitz”.
Angelica Ianiro

Mi piace la letteratura con tutti i suoi autori. Ognuno di loro ha mostrato l’evoluzione e il cambiamento a partire dal ‘300 fino ad oggi. Ognuno di loro tratta temi differenti e in modo diverso.
Uno che mi ha particolarmente colpito, però, è Luigi Pirandello, perché parla di tematiche super contemporanee in qualche modo precedendo un po’ i tempi. Lui coglie che è tutto relativo è che nessuno ha pienamente torto quanto ragione.
È colui che ha detto che indossiamo delle maschere e che ne abbiamo una per diverse occasioni, come dargli torto.
È stato anche il primo letterato italiano a vincere il Premio Nobel.
Arianna Gasbarro.

Ho amato Giovanni Verga in particolare, perché nei Malavoglia si parla di pescatori e io sono un appassionato di pesca, mi è piaciuto riconoscermi e ritrovarmi in quel mondo.
Bruno Melone

Articolo di redazione classe 3C

Articoli Recenti, Attualità: come va il mondo, Confini Reali, Diritto e Costituzione: tra libertà e senso civico, Frontiere e confini, Sostenibilità

La ricchezza dei margini

In Italia ci sono molti piccoli comuni sperduti e/o abbandonati che invece sono bellissimi, secondo noi, e nascondono tradizioni antichissime, paesaggi meravigliosi e storie emozionanti.

Si concentrano soprattutto nella zona interna dell’Italia, arroccati lungo il nostro splendido Appennino.

Dovremmo valorizzarli e riscoprirli, perché altrimenti si perderà anche un pezzo della storia dell’Italia. Su un articolo di Repubblica leggiamo: <<Sono 5.498 i piccoli Comuni in Italia (con popolazione pari o inferiore a cinquemila abitanti ma anche quei comuni istituiti con la fusione tra centri che hanno, ognuno, popolazione fino a 5.000 abitanti) su un totale di 7.914: rappresentano il 69,5% del complesso dei Comuni italiani e amministrano il 50 per cento del territorio nazionale. Ci vivono quasi 10 milioni di cittadini, il 16,51% della popolazione italiana>>.

Esiste anche una legge, la legge Realacci, che serve a tutelarli. Questa norma prevede:
il recupero dei centri storici,
la diffusione della banda larga,
la tutela dell’ambiente,
la prevenzione del rischio idrogeologico e
la realizzazione di itinerari turistico-culturali ed enogastronomici.

Questo permette di andarli a visitare e di scoprirli attraverso un turismo sostenibile che ci piace e apprezziamo, ne hanno parlato gli studenti degli anni scorsi anche qui. Tra i vicoli di questi borghi si sente l’odore del pane appena sfornato e si è circondati dalla natura. È un’Italia lontana dalle grandi mete turistiche tradizionali, ma assolutamente magica..

In fondo, a pensarci bene, l’Italia è un Paese di paesi, territori che da troppo tempo, però, sono stati lasciati in balìa dello spopolamento e dell’abbandono: i giovani vanno verso le grandi città e nei borghi non resta nessuno. Che possiamo fare? Renderli più interessanti e funzionali secondo noi, anche attraverso attività culturali per esempio.

Il circuito dei Borghi Autentici d’Italia è una rete che riunisce piccoli e medi comuni italiani con l’obiettivo di farli scoprire e conoscere. Ci sono moltissimi paesi abruzzesi che ne fanno parte. Spulciate sul sito per saperne di più e ricordatevi che la ricchezza non necessariamente sta nel centro, ma è spesso nascosta anche sui margini e sui confini.

Articolo di Simona Campellone, classe 2A

Articoli Recenti, Attualità: come va il mondo, Confini Immaginari, Lingue e culture diverse: parole e tradizioni oltre le barriere, Popoli: geostorie tra spazio e tempo

JUHANNUS – SOLSTIZIO D’ESTATE TRA KOKKO E FIORI DI CAMPO

Il solstizio d’estate per molti è il momento più bello dell’anno. In tutto il mondo si festeggia il ritorno della luce, dell’estate, delle giornate lunghissime, dei fiori, del sole.

Vedremo come il solstizio è festeggiato in diversi posto del Mondo. Cominciamo con la Finlandia. Juhannus è la tradizionale festa nazionale finlandese per celebrare il giorno più lungo dell’anno. Poiché segna l’inizio della stagione estiva, molti finlandesi vanno in vacanza simbolicamente proprio quel giorno o se non possono partire fanno piccole gite giornaliere. La fine di giugno è un periodo pieno di eventi, soprattutto perché qui il buio ormai scomparirà per tutta la stagione e si vedranno sempre più spesso i meravigliosi fenomeni del sole di mezzanotte.

Nelle regioni settentrionali della Lapponia Finlandese il Sole resta sopra l’orizzonte per più di 70 giorni consecutivi, sotto il Circolo polare, invece, tramonta ma solo per pochissimo tempo durante la notte e cmq non si può dire che diventi buio davvero.

Le tradizioni principali del solstizio d’estate sono legate ad alcuni elementi principali: sauna e bagno nelle acque pure finlandesi, fiori e fuochi accesi.

Fare la sauna e poi il bagno è simbolo di rigenerazioni in tutte le culture nordiche, oltre ad essere una importante pratica di benessere, soprattutto per la circolazione.
Secondo una credenza popolare, poi, se una giovane ragazza ripone sette fiori appena colti sotto il suo guanciale prima di addormentarsi il giorno del solstizio d’estate, riuscirà a sognare il suo futuro fidanzato.
E infine i falò, cioè i kokko. Di solito si accendono il giorno di San Giovanni (Juhannus appunto) per il solstizio d’estate, in zone controllate e sicure per bruciare gli spiriti maligni e purificare l’atmosfera.
Nei tempi passati il solstizio d’estate era considerato un momento magico, di passaggio, con varie tradizioni legate alla fertilità, all’abbondanza e all’amore. Non a caso molti matrimoni sono organizzati proprio in questo periodo, complici le temperature più favorevoli.

“uhannus è un momento di transizione fra due mondi, quello del buio e quello della luce e infatti, per attirare la buona sorte luminosa e gli spiriti amici i finlandesi amano divertirsi facendo rumore e bevendo molto, brindando alla vita che con l’estate torna a esplodere. 

Articolo di redazione della classe 2A

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L’Amazzonia tra natura e cultura

foresta tropicale
Eliconia

Le foreste tropicali sono dei biomi che si sviluppano nelle zone equatoriali, cioè nelle aree dove le temperature elevate e le forti precipitazioni durante tutto l’anno,
permettono alla vegetazione di restare sempre verdi, rigogliose, potentissime.
Queste foreste si trovano in Africa, Asia e America Latina, in quest’ultima è collocata la più importante di tutte, l’Amazzonia. Anche se occupano “solo” il 7% delle terre emerse, le foreste tropicali racchiudono più della metà di tutte le specie animali e vegetali del mondo intero: una biodiversità incredibile!

L’Amazzonia è la più antica foresta pluviale del mondo: ha 100 milioni di anni, si
sviluppa in un’immensa pianura alluvionale compresa tra il massiccio della
Guayana a nord e l’altopiano del Brasile a sud, l’oceano Atlantico a est e la
Cordigliera delle Ande a ovest. Con una superfice di 6,7 milioni di chilometri
quadrati, è la più vasta e variegata foresta tropicale e pluviale della Terra e il più
grande bacino fluviale del pianeta. La regione corrisponde per gran parte al bacino
del Rio delle Amazzoni, si estende dalle Ande fino all’Oceano Atlantico, e si trova
per circa due terzi in Brasile, mentre la zona rimanente si divide tra Colombia,
Ecuador, Perù, Bolivia, Venezuela, Suriname, Guyana e Guayana Francese.
L’area
è coperta prevalentemente da una fitta foresta pluviale umida tropicale, intervallata
da savane, praterie, paludi, bambù e foreste di palme che costituiscono ecosistemi
unici e una ricchezza ineguagliabile in termini di biodiversità acquatica e terrestre.
Basti pensare che il 10% delle specie conosciute sulla Terra provengono
dall’Amazzonia. Il più grande numero di specie di pesci d’acqua dolce al mondo si
trova in questa regione (circa 3.000) a cui si aggiungono 427 specie di mammiferi,
1.300 di uccelli, 378 di rettili e 427 di anfibi. Inoltre in questo vasto bioma il 75%
delle 40.000 specie di piante presenti sono uniche ed endemiche. Lo stesso livello
di diversità si riscontra per gli invertebrati: ogni 2,5 kmq di foresta si possono
rilevare circa 50.000 specie diverse di insetti.

L’Amazzonia gioca un ruolo fondamentale nella stabilità del clima regionale e globale, non solo perché la sua vegetazione trattiene il carbonio, ma anche perché grazie al suo immenso bacino idrografico facilita la circolazione dell’aria che dall’Oceano Atlantico si muove verso le Ande orientali.


Cascata do Caracol (Canela, Brasile)

Tutta questa abbondanza di risorse naturali non è sfuggita al gigantesco appetito dello sviluppo economico e delle multinazionali che ne sfruttano il territorio e le materie prime su scala industriale. Infatti il più grande nemico di questi ecosistemi è l’uomo.

La deforestazione è uno dei principali problemi a cui le foreste tropicali vanno incontro: non solo le piante, ma anche gli animali che ci vivono sono in serio pericolo. Più della metà delle foreste tropicali del mondo sono state distrutte in modo irrimediabile. L’Amazzonia è un grande “produttore” di ossigeno, unico “antidoto” per l’effetto serra: l’accumulo nell’atmosfera di anidride carbonica e di altri gas e il conseguente trattenimento del calore solare, ha portato negli ultimi 130 anni a un riscaldamento della superficie terrestre. Se questo fenomeno non si fermasse le conseguenze potrebbero essere catastrofiche: evaporazione dei mari, scioglimento
dei ghiacci polari, scomparsa di molte forme di vita. Un patrimonio dell’umanità; una riserva di ossigeno per il mondo che dobbiamo assolutamente tutelare.

Non solo natura: l’Amazzonia è anche un territorio in cui vivono popoli indigeni. Sono circa 400 i popoli, con circa un milione di persone, che vivono nelle foreste amazzoniche.


Comunità come quelle dei Karipuna, Guarani, Yanomani, Kichwa, Shuar, Wajapi spesso vivono in isolamento volontario o non sono mai stati a contatto con il mondo esterno. Tribù che con la loro storia e con le loro tradizioni rispettose della Natura che li circonda hanno contribuito a plasmare e proteggere la biodiversità di questi
grandi ecosistemi
. L’Amazzonia è abitata da società che hanno in comune
molti tratti culturali, ma le cui lingue sono caratterizzate da una grande diversità. Ci
sono circa 330 lingue esistenti. Nonostante le disparità, il contatto a lungo termine
tra molti dei linguaggi, ha creato somiglianze tra molte lingue confinanti che non
sono geneticamente correlate tra loro. Le piccole tribù parlano anche l’inglese, che
viene utilizzato come una delle loro lingue secondarie. Gli indigeni che vivono in
questi territori devono adattarsi alle condizioni ambientali presenti, ad esempio il
cibo. La principale fonte di proteine per queste tribù ​​è il pesce, seguito dalla caccia
di pecari, tapiri, roditori e scimmie. L’espansione agricola, con la sua versione del
taglia e brucia, è iniziata sulle montagne delle Ande occidentali e si è estesa sulla
maggior parte dei principali fiumi in Amazzonia.
Alcuni gruppi, in particolare quelli
che si basano sull’agricoltura, sono piuttosto aggressivi e inclini ad attaccare i loro
vicini. Tuttavia, esistono relazioni simbiotiche tra le diverse civiltà: ad esempio i
Tucanoans, che si basano sull’agricoltura, commerciano con i Nadahup, che sono
cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi forniscono carne animale dalla selva e veleno
ottenuto da pesce, e in cambio ricevono farina di tapioca dalle piantagioni
Tucanoan, così come la ceramica.


Le tribù di indios esistenti in Amazzonia sono numerosissime; vediamone qualcuna.

I Tupi erano una delle più importanti popolazioni indigene del Brasile. Gli studiosi
ritengono che inizialmente si stabilirono nella foresta amazzonica. Erano divisi in
diverse tribù costantemente in guerra tra loro. I Tupi mangiavano i resti dei parenti morti come una forma d’onore e rispetto per i defunti. Il fenomeno dei rituali di cannibalismo in Brasile è diminuito costantemente dopo il contatto europeo e l’intervento religioso.

Gli Ye’kuana, sono una tribù che abita case con struttura circolare con un tetto a forma di cono fatto di foglie di palma. Costruire una atta, nome di queste abitazioni, è considerata una attività spirituale in cui il gruppo riproduce la grande casa cosmica del Creatore.

Gli Awá (o Guajá) sono un gruppo in via di estinzione di indios che vivono nella parte
orientale della foresta amazzonica del Brasile. Ci sono circa 350 membri, e 100 di
loro non hanno alcun contatto con il mondo esterno. Originariamente vivevano in
insediamenti, ma hanno adottato uno stile di vita nomade, circa nel 1800, per
sfuggire alle incursioni da parte degli europei. Nel corso del 19° secolo, furono
sempre più sotto attacco da parte dei coloni, che hanno eliminato la maggior parte
delle foreste dalla loro terra. Dalla metà degli anni 1980 in poi, alcuni Awá si sono
trasferiti in insediamenti stabiliti, ma per la maggior parte sono stati in grado di
mantenere il loro stile di vita tradizionale, in cui vivono del tutto nelle loro foreste.

Rio Negro

L’Amazzonia quindi è territorio di molte tribù che rappresentano un patrimonio
genetico, sociale e culturale unico al mondo e la cui distruzione equivale a bruciare
un libro di storia senza averlo letto.

Articolo di Greta Mannella e Lara Pacella, classe 3B

Articoli Recenti, Contaminazioni, Lingue e culture diverse: parole e tradizioni oltre le barriere, Popoli: geostorie tra spazio e tempo

I Celti

Arrivati dall’Asia Minore, i Celti occuparono, tra l’XIII e il IV secolo a.C., molte regioni del continente europeo e delle isole britanniche. Le loro migrazioni e i loro spostamenti ebbero molteplici cause: l’aumento demografico, lo spirito di conquista, la pressione di altri popoli. Erano organizzati in tribù e un elemento che li legava molto era la religione, che si fondava sul culto di numerosi dei: questo popolo, hanno dedotto gli studiosi, aveva una religione politeista fondata e basata sulla natura e quello che offre: immaginavano che gli dei risiedessero in luoghi nascosti come isole lontane, foreste, grotte. La triade principale delle divinità era costituita da Teutanes, Taranis ed Esus: a questi dei erano dedicati anche sacrifici umani, i Celti erano noti perché decapitavano i nemici.

I Celti non si possono definire davvero un popolo, ma si può parlare di una stratificazione di popoli diversi che si fusero insieme e si dividono in base alla zona in cui vivevano e quindi si appropriano di questi nomi: in Gran Bretagna vengono chiamati Britanni; nella penisola Iberica vengono chiamati Celtiberi; nella penisola Balcanica vengono chiamati Galati; nella Gallia (Francia) vengono chiamati Galli; nei pressi del Danubio vengono chiamati Pannoni.

I Celti attraversarono le Alpi e si fermarono nella Pianura Padana (Gallia cisalpina) e da qui arrivarono anche Roma, che saccheggiarono nel 390, guidati da Brenno. 
Nel II e I secolo a.C., però, l’espansione dei Romani e dei popoli germanici sottrasse ai Celti quasi tutti i territori. Purtroppo in questo modo si perse la loro lingua che sopravvisse solo in Britannia (oggi Gran Bretagna), dove, nonostante l’occupazione romana, i Celti conservarono il Galles, la Scozia, l’Irlanda e alcune isole, come l’Isola di Man. Qui i loro dialetti sopravvissero nelle varianti gaelica, in Scozia e Irlanda e cimrica in Galles e nella zona della Cornovaglia. 

Al vertice della loro società c’erano guerrieri e druidi (che erano detti anche veggenti ed erano sacerdoti, maghi, insegnanti e giudici); poi c’erano i liberi non armati e gli schiavi, che praticavano agricoltura, allevamento, caccia e artigianato. 

I celti sono un popolo molto legato ai simboli, legati com’erano alla natura e al suo simbolismo magico. Sono davvero tantissimi, ne abbiamo scelti solo alcuni.

La triscele.
Si tratta di un simbolo diffuso in diverse aree geografiche, tanto che sono stati ritrovati reperti con questo simbolo anche a Malta, in Anatolia e in Grecia. Anche il simbolo della Sicilia, le tre gambe che si diramano circolarmente da un volto centrale, è una variante dell’antica triscele celtica, ripreso per le tre punte della Sicilia, l’antica Trinacria. Il tratto caratteristico della triscele, che differenzia questo simbolo celtico dalla triquetra, è la sua dinamicità.

La croce celtica.
Simile a una croce cristiana, ma racchiusa dentro a un cerchio, le origini della croce celtica sono ancora avvolte nel mistero. Si pensa che le quattro braccia della croce rappresentassero i quattro punti cardinali o, secondo un’altra teoria, i quattro elementi. Il cerchio che la circonda, invece, fa riferimento al dio del sole Taranis, che era sempre rappresentato con in mano una ruota solare. Il simbolo è quello che vedete nella foto di copertina dell’articolo.

La triquetra.
Questo simbolo racchiude due figure: la prima è il cerchio e la seconda è un tratto unito che forma una forma triangolare. La forma triangolare rappresenta la triplicità dell’universo (come: vita, morte, rinascita e anche mente, corpo, anima). Invece la forma circolare rappresenta l’unità dei tre elementi.

L’albero della vita.
L’albero della vita rappresenta la credenza druidica nella connessione tra cielo e terra, uniti nell’albero grazie ai suoi lunghi rami rivolti verso il cielo e alle sue radici, che si spingono in profondità sotto terra.

Articolo di Simona Campellone, classe 2A

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I popoli del deserto

Come si può facilmente immaginare, la vita nel deserto è molto difficoltosa, per questo motivo le aree desertiche sono tra le meno popolate al mondo.

La popolazione del deserto più nota è quella dei Tuareg, nomadi e organizzati in piccole tribù, non superiori ai 40 membri. Sono principalmente stanziati nel sud dell’Algeria, nel Niger e nel Mali. La loro religione è islamica. Sono soprannominati “uomini Blu” per via del colore del telo con cui gli uomini si avvolgono la testa ed il viso, lasciando
scoperta solo una stretta fessura per gli occhi. Indossano una lunga veste chiamata
caftano, che serve ai Tuareg per ripararsi dal vento e dalla sabbia del deserto. Si dedicano soprattutto alla pastorizia e all’agricoltura nelle oasi e all’allevamento di dromedari.

I Tuareg vivono principalmente di prodotti ricavati dai loro animali. La loro alimentazione è costituita da latte cagliato, burro fermentato, datteri e cereali dai quali ottengono la farina. Cucinano un particolare tipo di pane che viene cotto sotto la sabbia rovente del deserto. Si sa poco di preciso sul più antico passato di questo popolo, ma ciò che è certo è che per secoli i Tuareg sono vissuti come dominatori del deserto, esercitando l’allevamento, il commercio transahariano e la razzia, il che portava a frequenti scontri tra tribù.

Sottomessi dai Francesi intorno agli inizi del novecento, i Tuareg poterono mantenere a lungo i propri capi e le proprie tradizioni. Ma con la decolonizzazione videro il loro territorio diviso fra molte nazioni, con la conseguente creazione di frontiere e di barriere che rendevano estremamente difficile, quasi impossibile, il modo di vita tradizionale basato sul nomadismo. L’attrito con i governi al potere si fece sempre più forte e sfociò, negli anni novanta, in aperti scontri tra tuareg e i governi di Mali e Niger; l’intervento militare, che a volte ha massacrato la popolazione di interi villaggi, ha causato la morte di molte persone.

Un altro dei popoli più conosciuti sono i Berberi, nella loro lingua vuol dire “Uomini liberi”. I Berberi sono un popolo nomade originario del Nord Africa e si stima siano 40.000 persone in totale di cui maggior parte vive in territori del Marocco ma alcuni in Algeria, Tunisia e Libia. Negli ultimi anni stanno diminuendo a causa delle emigrazioni. Essi hanno una storia antica e lunga, infatti il primo segnale rinvenuto a far capire la loro presenza risale a 12.000 anni fa, cioè delle pitture rupestri trovate in Libia.

I Berberi sono stati influenzati dagli Arabi nel settimo secolo e da loro hanno preso la religione Islamica, visto che prima erano Cristiani, giudici o animisti (crede che non gli umani abbiano spirito e anima ma anche piante animali e lo stesso pianeta).
Una delle loro particolarità è la struttura sociale: sono divisi in tribù ed ogni tribù ha un capo, spesso uomini. Qui a differenza dei Tuareg è l’uomo a scegliere la donna, ma in alcuni casi dipende dalle famiglie e cambia in base alle regioni. Di solito gli uomini pensano al bestiame e le donne alla famiglia e all’artigianato. La loro alimentazione si basa primariamente sul granturco, latte di pecora, formaggio di capra, burro, miele, carne e selvaggina.

La loro cultura è tribale ed è fortemente radicate nella loro tradizione e anche qui cambia da regione a regione, e soprattutto in Marocco costituiscono un enorme patrimonio culturale che rende la nazione unica. Ogni loro celebrazione è rallegrata dalla musica tradizionale, suonata con flauti e batteria accompagnati da un gruppo di ballerini, sia uomini che donne. La loro lingua è divisa in 3 rami, in base alle zone da loro abitate, e fino a qualche anno fa era vietata anche nelle scuole marocchine, ma nel 2011 il re del Marocco, Mohamed VI, la riammise e la fece diventare la seconda lingua ufficiale della nazione. Questa lingua appartiene alla famiglia linguistica afroasiatica, che si lega anche all’egizio, all’arabo e all’ebraico.

Il termine “berbero” deriva dal francese berbère, che a sua deriva dalla prununcia magrebina dell’arabo barbar. Il termine si lega senza dubbio al latino barbarus, con cui, lo ricordiamo, venivano chiamate all’epoca dell’Impero Romano le popolazioni che semplicemente non parlavano la lingua latina.

Articolo di Gabriele Quaranta e Giuseppe D’Amico

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Mescolanza e contaminazioni in Andalusia: il Flamenco

Il Flamenco è una forma di musica e di danza di origine andalusa, che non nasce come vera a propria forma di spettacolo , ma come un modo personale e soggettivo di sfogare i dolori in modo intimo. Si tratta di un ballo inventato dai gitani, che veniva usato come sfogo per chi li perseguitava e nel 2010 è stato dichiarato Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’Unesco. 

I patrimoni immateriali sono importantissimi perché tramandano cultura e tradizioni, le consacrano, in un certo senso, le tutelano.

L’Andalusia è una terra bellissima che si situa nel Sud della Spagna, che da sempre è fulcro di importati flussi migratori e il Flamenco nasce dalla mescolanza di balli e musiche sia tradizionali che nomadi, una contaminazione bellissima che gitani, mori ed ebrei portarono con sé dalle lontane regioni d’Oriente e d’Occidente e le fusero con le tradizioni europee e spagnole.

Il Flamenco si cantava, inizialmente, senza l’accompagnamento della chitarra, avvalendosi soltanto di supporti ritmici corporali, come il battito dei piedi sul terreno, delle mani oppure delle nocche sul tavolo. Negli ultimi decenni si sono cominciati ad usare nel flamenco anche altri strumenti, come per esempio la chitarra, il sassofono, il flauto, il violino e altri tipi di strumenti a percussione e oggi quindi il Flamenco è una forma di spettacolo a tutti gli effetti e i turisti che vanno in Spagna spesso vogliono assistere a questi spettacoli, bellissimi e coinvolgenti.

Ogni anno, durante il periodo di Pasqua, in tutte le città principali dell’Andalusia, si festeggia la “Feria de Abril” e tra tutte la più famosa è quella di Siviglia. Le ragazze indossano il tipico vestito tradizionale, con un ventaglio e un fiore rosso fra i capelli e gli uomini si vestono da cavalieri gitani. Le strade sono piene di carrozze decorate e risuona la melodia della chitarra spagnola.

Il modello più comune è un vestito fino alla caviglia; a volte anche fatto di due pezzi: gonna e camicia. La gonna è spesso a balze (faralaes) che possono essere posizionati sia sulla gonna che sulle maniche. Di solito è ampia e lunga, perché si deve muovere e deve girare al vento o mentre si balla. La camicia di solito è bianca, rossa o nera, questi sono i principali colori del Flamenco. Il vestito, con disegni sia semplici che a motivi geometrici, o anche a tinta unita a volta, si completa con un tipo di scialle tipico chiamato Mantón de Manila. Immancabili il ventaglio, le nacchere e il fiore nei capelli, in ordine e raccolti. Non vedo l’ora di poter viaggiare dopo il Covid e assistere a uno di questi spettacoli.

Articolo di Lorenzo Verlingieri, classe 2A

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Tra Instabilità e Consapevolezze nuove: la crisi del mondo islamico

Studiare il mondo contemporaneo, quindi la storia di terza media, ci piace tantissimo, anche nella sua complessità. Forse proprio per questo, perché capirne i meccanismi ci rende cittadini consapevoli.

Qui il nostro approfondimento sul mondo islamico, dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra, guerre, instabilità ma anche voglia di pace, libertà e consapevolezze nuove.

Articolo e power point di Gioia Racanati, Francesco Varrati e Giorgia Trailani